IL WHISTLEBLOWING

DI PIERPAOLO RIVELLO SOCIO ANF TORINO PIEMONTE

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Le finalità del whisteblowing. - 3. Le fonti normative e l’attuale disposto dell’art. 54-bis del d.lgs. n. 165 del 2001. – 4. Le indicazioni per un corretto utilizzo dell’istituto. – 5. Le garanzie a tutela del whisteblower. – 6. Le specificità della Pubblica Amministrazione.

 

1.     Premessa. Può accadere, presso qualunque struttura, pubblica o privata, che il dipendente, nel corso della sua attività lavorativa, venga a conoscenza di fatti illeciti, talvolta costituenti veri e propri reati, o tali comunque da incrinare l’immagine dell’Ente, poste in essere da colleghi o da superiori, magari posti in posizioni apicali nell’ambito delle rispettive strutture.

Peraltro, in via generale, chi avrebbe la possibilità di segnalare simili episodi teme, alla luce  di considerazioni  basate, purtroppo, su esperienze concrete, che un’eventuale sua “esposizione” lo condurrebbe a  una serie di pesanti ritorsioni da parte non solo del diretto segnalato ma di tutta la “struttura” che, di fronte alla denuncia, appare riottosa a far emergere  una situazione che andrebbe  prontamente estirpata, astenendosi dall’operare con decisione al fine di eliminare le  anomalie  al suo interno.

Non di rado l’ente presso cui presta servizio il dipendente, temendo che la segnalazione faccia risaltare la sussistenza di  una trama ampia e diversificata di irregolarità, che potrebbero  mettere in “cattiva luce” l’intera struttura, anziché promuovere un’azione moralizzatrice tende a “fare quadrato” intorno al soggetto denunciato, isolando invece il denunciante in maniera talvolta così pesante da rendere di fatto impossibile per lui la normale prosecuzione del rapporto di lavoro, tanto da indurlo successivamente  a dimettersi.

Per tale motivo si è diffusa la prassi, peraltro esecrabile, delle c.d. “denunce anonime”.

 

 

2.     Le finalità del whisteblowing. - Lo strumento introdotto dal legislatore e costituente oggetto di questo nostro approfondimento mira  a superare dette problematicità, permettendo  di evitare il ricorso allo strumento delle “denunce anonime” (spesso  dettate da motivazioni che nulla hanno a che vedere con un intento moralizzatore e rispetto alle quali risulta difficile distinguere il crinale tra gli esposti  realmente finalizzati alla segnalazione di illeciti e quelli volti invece ad accusare falsamente colleghi, o più spesso  superiori, nei cui confronti il denunciante nutre sentimenti di livore che talvolta traggono le loro origini da vicende estranee agli aspetti strettamente lavorativi) e di fornire a chi sia realmente intenzionato a segnalare gli illeciti,  perpetrati in passato e magari ancora in corso di esecuzione  all’interno dell’ente di appartenenza, un mezzo normativamente regolamentato, atto  a garantire al denunciante la segretezza della segnalazione  ed a tutelarlo  dal rischio di eventuali azioni ritorsive  [1].

L’istituto in esame viene generalmente definito come “whistleblowing”. Del resto proprio nei Paesi di common law, ed in particolare negli Stati Uniti, la figura del “whisteblower” (letteralmente: colui che soffia il fischietto) ha trovato ampia diffusione [2], estendendosi poi in altre Nazioni  [3], permettendo in tal modo ai dipendenti di vari enti  (ivi compresi numerosi dipartimenti governativi) di far emergere le attività illecite che si svolgevano all’interno delle organizzazioni a cui essi appartenevano.

L’utilità di detto strumento è stata riconosciuta anche in talune  Convenzioni internazionali, che hanno invitato gli Stati aderenti ad introdurlo nelle rispettive legislazioni nazionali [4].

Per quanto concerne l’origine di questo termine si ritiene che esso sia stato scelto perché permette di operare un’analogia di facile comprensione. Così come il referee (l’arbitro) in numerosi sport, fischia, soffiando, per evidenziare la violazione alle regole del gioco posta in essere da un giocatore (il c.d. “fallo),  parimenti il whistleblower con la sua segnalazione tende a palesare l’irregolarità posta in essere da un altro dipendente nell’ambito lavorativo.

La segnalazione può concernere esclusivamente dei fatti che siano ritenuti illeciti dal whistleblower, anche se non necessariamente essi devono configurare gli estremi di una fattispecie di reato.

Esulano pertanto da detto ambito, e non possono conseguentemente essere prese in esame, le segnalazioni che si limitino a evidenziare comportamenti inurbani da parte dei superiori; eventuali condotte indolenti dei colleghi; scarso impegno nel servizio da parte di altri dipendenti; l’insorgenza di divergenze di vedute circa le modalità di svolgimento dei compiti lavorativi; o che attengano a profili riconducibili esclusivamente all’ambito del contratto di lavoro, quale l’eventuale asserita violazione del  diritto a promozioni o progressioni di carriera, ad aumenti stipendiali, ad assegnazione a differenti compiti o mansioni (purché non vengano segnalate condotte discriminatorie e conseguentemente illecite).

 

3.     Le fonti normative e l’attuale disposto dell’art. 54-bis del d.lgs. n. 165 del 2001. –  L’introduzione di una normativa volta ad introdurre e disciplinare questo strumento ha indubbiamente rappresentato un segnale importante per il nostro Paese [5], destinato ad incidere significativamente nell’ambito dei rapporti lavorativi, ed in particolare a contribuire alla formazione di una nuova cultura nell’approccio al contrasto alla corruzione, non solo nel settore della pubblica amministrazione ma anche in quello privato, aziendale e societario, ricollegabile in tal caso alla prevenzione da responsabilità degli enti [6].  

Per quanto specificamente concerne la posizione dei dipendenti pubblici, nel nostro Paese la regolamentazione del whistleblowing è ricavabile dal dettato dell’art. 54 – bis (“Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”) del d. lgs. 30 marzo 2011, n. 165, inserito dall’art. 1, comma 51, della l. 6 novembre 2012, n. 190 [7], nell’ambito delle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

Detto provvedimento è stato modificato a più riprese.

Dapprima vi è stata  l’integrazione operata dal decreto legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito nella l. 11 agosto 2014, n. 114, il cui articolo 31 ha modificato l’art. 54 – bis, individuando nell’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione) un possibile destinatario delle segnalazioni.

Nell’ art. 19, comma 5, della l. n. 114 del 2014 viene infatti  precisato che l’ANAC “riceve notizie e segnalazioni di illeciti, anche nelle forme di cui all’art. 54 – bis del decreto legislativo 30 marzo 2011, n. 165”.

Successivamente è stata operata la radicale riscrittura della disposizione in esame, ad opera dell’art. 1 della l. 30 novembre 2017, n. 179, recante “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”, con cui l’Italia ha dato attuazione alla direttiva UE 2015/849, concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario per finalità di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, e diretta a prevedere, tra l’altro, l’adozione di procedure finalizzate ad incentivare le segnalazioni delle violazioni alle disposizioni in materia di antiriciclaggio.

A seguito di dette modifiche, mentre in precedenza l’interessato  doveva segnalare le irregolarità al “superiore gerarchico” dell’Amministrazione di appartenenza (con tutti i connessi rischi di scarsa incidenza di detta segnalazione, a causa della mancanza di “interesse” a sviluppare serie indagini in ordine a quanto messo in luce) attualmente il dipendente ha un ampio ventaglio di opzioni operative nella scelta del destinatario della segnalazione.

Viene in esame in primo luogo, come eventuale destinatario dell’esposto, il “Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza” (RPCT), che deve obbligatoriamente essere istituito presso le varie Amministrazioni pubbliche.

In alternativa, la segnalazione è inoltrabile  all’ANAC; l’interessato, d’altro canto, può direttamente formulare una  denuncia all’Autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile.

Infatti, ai sensi dell’attuale testo dell’art. 54 – bis, così come risultante a seguito delle modifiche da ultimo operate dalla l. n. 179 del 2017, “il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all’articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione”.      

 

4.     Le indicazioni per un corretto utilizzo dell’istituto. – Come abbiamo visto, le particolari modalità della segnalazione, le garanzie di segretezza del nome del segnalante e le tutele offerte contro il rischio di eventuali forme ritorsive dovrebbero indurre (il condizionale è d’obbligo, in quanto in realtà, almeno presso determinate strutture, l’istituto del whisleblowing ha incontrato scarsa fortuna applicativa) ad un largo utilizzo di questo strumento, offerto ai dipendenti per permettere ad essi di far emergere delle realtà “viziate”, senza peraltro essere esposti al rischio di possibili “vendette”.    

Coloro i quali intendono avvalersi di detto strumento sono peraltro tenuti a conoscerne adeguatamente gli  ambiti di utilizzo, onde evitare di redigere, ai sensi della l. n. 179 del 2017, delle segnalazioni destinate inevitabilmente alla “cestinazione”, in quanto esorbitanti rispetto all’ambito di operatività di questo istituto.

Conseguentemente, occorre  che il segnalante sia ben consapevole del fatto che il whistleblowing  non vale certo a sostituire gli ordinari mezzi giurisdizionali, ed in particolare non si sovrappone in alcun modo ai ricorsi in materia di diritto del lavoro, volti a lamentare eventuali inadempienze contrattuali.

Oggetto della segnalazione deve necessariamente essere una “condotta illecita” di cui il dipendente sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro.

Ovviamente, non occorre che venga altresì operato  l’inquadramento della condotta segnalata entro l’ambito di una determinata fattispecie criminosa.

Del resto, come già rilevato, non necessariamente i fatti segnalati devono configurare dei reati.

Possono essere segnalati anche  illeciti idonei a determinare addebiti per responsabilità contabile, o per responsabilità meramente disciplinare, purché si tratti comunque  di “illeciti”, e non di condotte magari censurabili dal punto di vista comportamentale ma prive di ulteriori riverberi negativi sull’operato dell’ente.

Nella segnalazione, l’interessato deve concentrarsi sulla descrizione, possibilmente concisa, dei fatti, evitando considerazioni di dettaglio, riguardanti magari la sua sfera personale, che finirebbero unicamente col rendere più difficoltosa la focalizzazione dell’attenzione sugli aspetti realmente rilevanti della vicenda.

Il whistleblower è tenuto ad indicare con precisione le proprie generalità.

E’ questo il primo aspetto che vale a distinguere tale segnalazione dalla denuncia anonima.

Bisogna altresì  fornire una chiara e puntuale descrizione dei fatti che costituiscono l’oggetto della segnalazione; dei loro estremi spaziali e temporali; nonché dell’identità del soggetto segnalato o degli elementi atti a renderne possibile, a seguito di eventuali indagini, la sua identificazione; e l’indicazione dei  soggetti che possono fornire utili indicazioni al riguardo, nonché degli elementi documentali atti a  comprovare la fondatezza dell’oggetto della segnalazione.  

 

5.     Le garanzie a tutela del whisteblower. –  L’aspetto che maggiormente connota l’istituto del whisteblowing, e ne dovrebbe favorire la sempre più ampia diffusione, è rappresentato dalla previsione in base alla quale deve essere evitata la divulgazione dell’identità del segnalante [8].

Al riguardo, ai sensi del terzo comma dell’art. 54 – bis “l’identità del segnalante non può essere rivelata”.

Detta garanzia deve perdurare anche qualora i fatti segnalati vengano ritenuti tali da configurare degli illeciti penali o degli illeciti volti a configurare una responsabilità contabile.

La norma in esame infatti precisa che, in relazione agli eventuali procedimenti penali instaurati a seguito di tali segnalazioni , l’identità del segnalante “è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del codice di procedura penale”.

Anche per quanto concerne l’eventuale procedimento incardinato innanzi alla magistratura contabile l’identità del segnalante “non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria”.

D’altro canto, in relazione al procedimento disciplinare a carico del soggetto “segnalato”, scaturito a seguito dell’esercizio del whisteblowing, il già citato terzo comma dell’art. 54 bis stabilisce che “l’identità del segnalante non può essere rivelata, ove la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità”.  

Parimenti, la segnalazione risulta sottratta all’esercizio del diritto di accesso, di cui agli artt. 22 e ss. della l. 7 agosto 1990, n. 241, ed è ugualmente sottratta all’accesso civico generalizzato, di cui al d. lgs. n. 33/2013.

Al contempo, l’istituto del whistleblowing mira a scongiurare l’eventualità che, anche qualora l’identità del segnalante venga conosciuta, l’avvenuta segnalazione possa costituire oggetto di attività ritorsive da parte dei vertici dell’Amministrazione o dell’ente ove presta servizio l’interessato.

Al riguardo il sesto comma dell’art. 54 bis dispone che devono essere considerati nulli gli eventuali “atti discriminatori o ritorsivi” posti in atto ai danni del soggetto autore della segnalazione e che, in caso di avvenuto licenziamento a causa della segnalazione, il segnalante debba essere immediatamente reintegrato nel posto di lavoro.

E’ importante rilevare che in tal caso non grava sul segnalante l’onere di dimostrare che tali atti sono ricollegabili all’avvenuta segnalazione e rappresentano una ritorsione rispetto ad essa; grava infatti sull’Amministrazione l’onere di “dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione”.

La tutela offerta da tali disposizioni viene meno solo in caso di comprovata falsità della segnalazione:  ai sensi del nono comma dell’art. 54 bis la garanzia delineata dal legislatore  è esclusa “nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia di cui al comma 1 ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo,  nei casi di dolo o colpa grave”.    

 

 

6.     Le specificità della Pubblica Amministrazione. – Nel contesto della Pubblica Amministrazione, al pari e forse più rispetto ad altre strutture, l’istituto del whistleblowing  può rivelarsi particolarmente proficuo nel contrastare condotte atte ad arrecare un grave danno all’immagine dell’ente.

In tale ambito, infatti, è  alto il rischio che sussistano  “gruppi” di potere che, di fronte alla segnalazione di abusi e vessazioni, tendano a “coprire” i loro componenti, isolando gli autori della segnalazione e perseguitandoli magari con una serie di infondate accuse disciplinari.

In passato, molto diffuso in questo contesto era il ricorso alle denunce anonime, che sommergevano le Procure ordinarie.

Peraltro, come già osservato talora  queste denunce avevano in realtà scopi diversi ed anzi antitetici rispetto a quello consistente nella segnalazione di irregolarità poste in essere all’interno delle varie strutture lavorative.

Chiunque abbia un’approfondita conoscenza del mondo della P.A.  sa bene che molto spesso proprio i funzionari ed i dirigenti  che con maggiore impegno intendono porre in essere un’azione moralizzatrice, facendo venir meno ingiustificate sacche di sotto utilizzo del personale o  incrostazioni di perduranti privilegi vengono fatti oggetto di esposti anonimi finalizzati a colpirli, proprio a causa del rigore con cui esercitano la loro funzione.

Per tutti i sovraesposti motivi l’istituto del whistleblowing potrebbe svolgere un ruolo fondamentale, rendendo possibile  un’opera di radicale progresso e rinnovamento.

In linea generale i vari Ministeri, con notevole sensibilità, hanno avvertito l’importanza dello strumento in esame e la necessità di un’idonea regolamentazione interna, volta ad agevolare il ricorso ad esso, onde evitare che esso fosse destinata a rimanere sulla carta ma avesse, al contrario, un reale ambito di utilizzo.

Vi è stata in altri termini la consapevolezza, almeno a livello dei vertici dell’Amministrazione, che lo strumento del whistleblowing, come da tempo sottolineato dalla dottrina [9], non rappresenta solo un mezzo efficace  per evidenziare condotte illecite poste in essere, ma costituisce altresì, in chiave preventiva, un valido deterrente rispetto alla commissione di simile condotte, in virtù dell’acquisita consapevolezza che esse potranno agevolmente essere evidenziate e poste in luce.

In quest’ottica va riconosciuta la particolare cura mostrata generalmente nella scelta dei soggetti chiamati a rivestire la delicata funzione di Responsabile per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, ai cui uffici devono essere indirizzate le segnalazioni dei whisleblowers.

Occorre dunque che i dipendenti comprendano l’importanza di questo istituto e le sue potenzialità, atte a permettere di  evidenziare, senza rischi di ritorsioni, la sussistenza di illeciti ricollegati all’espletamento delle attività lavorative.

 

 

   

 



[1] Cfr. V.A. Belsito, Il whistleblowing. Tutela e rischi per il soffiatore, Bari, Cacucci, 2013.


[2] V. al riguardo G. Liguori, La disciplina del whistleblower negli Stati Uniti, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2014, n. 2, p. 111 ss.


[3] G. Amato, Profili penalistici del whistleblowing: una lettura comparatistica dei possibili strumenti di prevenzione della corruzione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2014, 27 (3), p. 549 ss.


[4] F. Gandini, Il whisleblowing negli strumenti internazionali in tema di corruzione, in AA.VV., Il whistleblowing. Nuovo strumento di lotta alla corruzione, Acireale – Roma, Bonanno, 2011.


[5] P. Pezzuto, Whistleblowing e rapporto di lavoro, Giappichelli, Torino, 2020.


[6] A. Parrotta – R. Razzante, Il sistema di segnalazione interna. Il whistleblowing nell’assetto anticorruzione, antiriciclaggio e nella prevenzione da responsabilità degli enti, Pacini Giuridica, 2019.  


[7] Per un’analisi di detta legge v.. M. Bascelli,  Legge 190/2012 (c.d. legge anticorruzione): il primo approccio del legislatore italiano ai whistleblowing schemes, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2013, n. 2, p. 35 ss.


[8] Cfr. sul punto C. Bove, Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti: il “whistleblowing”, in Aa.Vv., Il contrasto al fenomeno della corruzione nelle amministrazioni pubbliche. Commento alla legge n. 190/2012 e decreti attuativi, Roma, Eurilink, 2013.  


[9] V. in particolare P. Ghini, L’utilizzo di un sistema di whistleblowing quale ausilio nella prevenzione delle frodi e dei reati, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2010, n. 4, p. 203 ss.



 IL DIFENSORE E GLI ACCERTAMENTI TECNICI IRRIPETIBILI, DI CUI ALLART. 360 C.P.P.

DI PIERPAOLO RIVELLO SOCIO ANF TORINO PIEMONTE

SOMMARIO:

1.     LA NOZIONE DI ACCERTAMENTO TECNICO IRRIPETIBILE E L’AMBITO DI APPLICAZIONE DI DETTO ISTITUTO. LA POSIZIONEL DEL DIFENSORE.

2.     LA DISTINZIONE INTERCORRENTE TRA GLI ACCERTAMENTI TECNICI E I RILIEVI.

3.   L’IRRIPETIBILITÀ DELL’ACCERTAMENTO TECNICO.

4.   GLI ACCERTAMENTI TECNICI MODIFICATIVI.

5.   GLI ONERI DELLA DIFESA IN CASO DI RICHIESTA DI INCIDENTE PROBATORIO ED ALCUNI VISTOSI ERRORI GIURISPRUDENZIALI NELLA PRASSI APPLICATIVA

 

 

1.           LA NOZIONE DI ACCERTAMENTO TECNICO IRRIPETIBILE E L’AMBITO DI APPLICAZIONE DI DETTO ISTITUTO

 

L’accertamento tecnico non ripetibile rientra tra le ipotesi di formazione anticipata della prova utilizzabile in giudizio e può essere esperito in presenza di situazioni di improcrastinabilità dovute alla sussistenza di possibili fattori modificativi, che potrebbero provocare la definitiva perdita di importanti elementi gnoseologici, che vengono invece “cristallizzati” grazie all’accertamento tecnico irripetibile 1.

Occorre esperire al riguardo un giudizio prognostico, concernente la probabilità che il mezzo di prova non sia più utilmente esperibile in fase dibattimentale, o quantomeno non abbia in tal caso eguali prospettive di un utile risultato 2.


Appare evidente come, alla luce dell’attuale modello processuale, l’istituto in esame appaia anomalo sotto più di un aspetto, in quanto esso affida al pubblico ministero, e dunque ad un soggetto non “terzo”, l’attività di formazione della prova 3, permettendo

così che la documentazione di una serie di atti compiuti                         unilateralmente           transiti automaticamente nel fascicolo dibattimentale. Del resto, pur essendo consentita la partecipazione dei difensori e dei consulenti tecnici dell’indagato e dell’offeso dal reato il contraddittorio in tal modo instaurabile è di tipo “imperfetto”


1 BONZANO, Attività del pubblico ministero, in GARUTI (a cura di), Indagini preliminari e udienza preliminare, in Trattato di procedura penale, diretto da Spangher, Utet, Torino, 2009, p. 315; CASASOLE, Le indagini scientifiche nel processo penale, Dike Giuridica Editrice, Roma, 2013, p. 48 ss.; RIVELLO, La consulenza tecnica, in FERRUA-MARZADURI- SPANGHER (a cura di), La prova penale, Giappichelli, Torino, p. 378.

2 CESARI, L’irripetibilità sopravvenuta degli atti di indagine, Giuffrè, Milano, 1999, p. 37.

3 KOSTORIS, I consulenti tecnici nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1993, p. 149; MANZIONE, L’attività del pubblico ministero, in AIMONETTO (coordinato da), Indagini preliminari ed instaurazione del processo, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da Chiavario – Marzaduri, Utet, Torino, 1999, p. 267.

.

Molto correttamente si è parlato al riguardo di una sorta di incidente probatorio sui generis 4, caratterizzato, tra l’altro, da una particolare “elasticità” delle forme 5.

E’ stato anzi affermato, in senso critico, come sotto l’etichetta di accertamento tecnico, in virtù di un mero «gioco» nominalistico, si sia dato vita ad una vera e propria perizia demandata, per quanto concerne le sue connotazioni procedimentali, al pubblico ministero.

Vedremo pertanto come, di fronte ad una richiesta di accertamento tecnico formulata dalla Procura della Repubblica, il difensore, laddove ritenga significativo per la posizione del suo assistito il dato probatorio che potrebbe essre assunto con l’accertamento tecnico irripetibile, sarà indotto a formulare invece richiesta di incidente probatorio.

Laddove ciò non avvenga, e il difensore decida di “accettare” l’accertamento tecnico irripetibile, senza operare la “contromossa” consistente nella richiesta di incidente probatorio, deve   ritenersi che le lacune nella previsione normativa dell’art. 360 c.p.p. vadano pertanto colmate facendo ricorso, in via di applicazione analogica, al disposto degli artt. 220 ss. c.p.p. in tema di perizia, stante la corrispondenza funzionale con tale mezzo di prova 6; infatti i presupposti per compiere i due atti possono essere considerati sostanzialmente equivalenti 7.

 

4 MORSELLI, L’incidente probatorio, Utet, Torino, 2000, p. 156.

5 BONZANO, Attività del pubblico ministero, cit., pag. 358, nt. 199.

6 KOSTORIS, I consulenti tecnici, cit., p. 159; MANZIONE, L’attività del pubblico ministtero, ibidem.

7 KOSTORIS, op. cit., p. 154 e 160; RIVELLO, La consulenza tecnica, cit., p. 386.


Ad esempio, circa le perplessità concernenti il numero di consulenti tecnici che le parti private sono autorizzate a nominare, nonché la possibilità per i difensori ed i consulenti tecnici di coadiuvare il pubblico ministero nella formulazione dei quesiti, occorre richiamare al riguardo le disposizioni in tema di perizia.

Parimenti si ritiene che anche rispetto all’accertamento tecnico non ripetibile valga il divieto, posto in tema di perizia dal secondo comma dell’art. 220 c.p.p., concernente le analisi volte a stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’indagato ed in generale le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche 8. Per le stesse considerazioni va sostenuto che il consulente, al pari di quanto il legislatore espressamente prevede con riferimento al perito, possa ritenersi legittimato, in sede di accertamento tecnico, a fare ricorso ad uno o più collaboratori di sua fiducia per lo svolgimento di attività materiali non implicanti apprezzamenti e valutazioni.

D’altro canto, così come stabilito per il perito dal terzo comma dell’art. 228 c.p.p., ed in analogia a detta previsione, stante l’identità di ratio, qualora per l’espletamento della propria attività il consulente richieda delle notizie all’indagato, alla persona offesa o ad altri soggetti, gli elementi conoscitivi così acquisiti sono utilizzabili solo ai fini della redazione del responso tecnico, e non possono dunque assumere alcuna ulteriore valenza probatoria.  Il consulente chiamato  a svolgere l’accertamento di cui all’art. 360 c.p.p. assume una connotazione pubblicistica, caratterizzata dall’obbligo di comparire e di espletare l’incarico affidatogli.

Per quanto concerne la sussistenza o meno dell’obbligo di prestare una dichiarazione formale di impegno a far conoscere la verità, si discute se il consulente tecnico del p.m., svolgente funzioni ausiliarie rispetto ad una delle parti processuali, sia davvero tenuto a rendere tale dichiarazione, al pari di quanto previsto dall’art. 226 c.p.p. con riferimento al perito.

Una parte significativa della dottrina si era espressa in senso negativo 9.

8 KOSTORIS, op. cit., p. 161.

9 AVANZINI, L’esame dibattimentale delle fonti di prova personali, in UBERTIS (a cura di), La conoscenza del fatto nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1992, pag. 58; CONTI, Scienza e processo penale: dal procedimento probatorio al giudizio di revisione, in DE CATALDO NEUBURGER (a cura di), Scienza e processo penale: linee guida per l’acquisizione della prova scientifica, Cedam,


A giustificazione di tale conclusione veniva rilevato che il punto di vista del consulente tecnico è necessariamente “di parte”, in quanto tale soggetto, in ragione delle finalità del suo incarico, proporrà e sosterrà unicamente gli argomenti favorevoli ad una determinata tesi

Un ulteriore elemento di sostegno a detta tesi è rapprentato dal fatto che il legislatore, pur avendo incriminato la “falsa perizia”, non ha invece configurato un reato di “falsa consulenza tecnica”.

Tutte le sovraesposte considerazioni non sono peraltro valse ad incidere sull’impostazione, diametralmente           contraria, della giurisprudenza, volta invece a ravvisare la sussistenza di un obbligo di verità in capo al consulente; da ciò consegue il convincimento della doverosità di far leggere ai consulenti tecnici la stessa dichiarazione di impegno prevista per i testimoni ai sensi del secondo comma dell’art. 497 c.p.p.

Tale impostazione è stata avallata, con specifico riferimento alla posizione del consulente tecnico del pubblico ministero, anche dalle Sezioni Unite, chiamate a valutare la qualificazione giuridica da attribuire alla condotta diretta ad istigare un consulente tecnico del pubblico ministero affinchè questi predisponesse una falsa consulenza.

Le Sezioni Unite, ritenendo integrato in tal caso il reato di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 c.p., hanno distinto la posizione del consulente tecnico delle parti private rispetto a quella del consulente tecnico del pubblico ministero, ravvisando solo con riferimento a quest’ultimo un dovere di obiettività ed un obbligo di verità, e chiarendo che «il consulente tecnico del pubblico ministero va equiparato al testimone anche quando formula giudizi tecnico-scientifici» 11.

Del tutto incontroversa è invece la conclusione in base alla quale anche il consulente tecnico è obbligato, sotto responsabilità penaleai sensi dell’art. 326 c.p., al mantenimento del segreto in ordine alle operazioni compiute. 

Padova, 2010, p.165; GASPARINI, Perizia, consulenza tecnica e altri mezzi di ausilio tecnico scientifico, in MARZADURI, Prove, II, I singoli mezzi di prova e di ricerca della prova, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, cit., Utet, Torino, 1999, p.

194 s.; KOSTORIS, op. cit., p. 335; RIVELLO, Il dibattimento nel processo penale, Utet, Torino, 1997, p. 221.

10 FOCARDI, La consulenza tecnica extraperitale delle parti private, Cedam, Padova, 2003, p. 184; RIVELLO, La prova scientifica, Giuffrè, Milano, 2014, p. 394 ss.  

 11 Cass., sez. un., 25 settembre 2014, Guidi, in Cass. pen. 2015, p. 1022


2.           LA DISTINZIONE INTERCORRENTE TRA GLI ACCERTAMENTI TECNICI E I RILIEVI 

Per quanto concerne l’individuazione delle differenze intercorrenti tra un “rilievo” ed un “accertamento” si può osservare che nel primo caso si è in presenza di una semplice constatazione o raccolta di dati materiali pertinenti al reato ed alla sua prova, laddove l’accertamento implica invece lo studio e l’elaborazione critica, su base tecnica, degli elementi raccolti, con l’applicazione di leggi scientifiche e di una specifica esperienza 12.

Proprio alla luce di tali considerazioni è stato affermato che il richiamo, operato dall’art. 360 c.p.p., alla sola nozione di «accertamenti», contenuta nell’art. 359 c.p.p., e non anche a quella dei «rilievi», deve ritenersi frutto di una scelta consapevole del legislatore, che avrebbe inteso in tal modo escludere, implicitamente, dall’ambito degli accertamenti tecnici non ripetibili i rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici, nonché le altre operazioni tecniche parimenti menzionate dall’art. 359 c.p.p., che potrebbero dunque essere espletate, in presenza dei requisiti di indifferibilità, in assenza delle garanzie previste dall’art. 360

c.p.p. 13.

Può essere fatto al riguardo l’esempio del prelievo di impronte dattiloscopiche-papillari, lasciate da un rapinatore sul vetro del bancone dell’ufficio postale rapinato; tale operazione, pur risultando indifferibile ed urgente, stante la naturale modificabilità e tendenza alla rapida dispersione degli elementi che ne costituiscono l’oggetto, è di natura meramente materiale, consistendo in una semplice rilevazione obiettiva, e non risulta dunque inquadrabile nella nozione di accertamento, che presuppone una attività di   carattere   valutativo su base tecnico-scientifica 14.


12 Cass. pen. 8 settembre 2016, in Ced Cass., n. 268165; Cass. pen. 6 marzo 2013, ivi, n. 254589; Cass. pen. 19 gennaio 2011, A.A., ivi, n. 249569; Cass. pen. 30 novembre 2005, Fummo, in Cass. pen. 2007, p. 231; Cass. pen. 24 gennaio 2003, Bocchetti, in Guida dir. 2003, n. 14, p. 112; Cass. pen. 23 marzo 1995, Salvati, in Cass. pen. 1996, pag. 855; Cass. pen. 3 giugno 1994, Nappi, in Giust. pen. 1995, III, p. 600;Cass. pen. 9 febbraio 1990, Duraccio, ivi 1991, III, pag. 241; in dottrina BONZANO, Attività del pubblico ministero, cit., p. 319 e 320; FELICIONI, Le ispezioni e le perquisizioni, 2ª ed., Giuffrè, Milano, 2012, pag. 150 ss.; RENON, L’incidente probatorio nel procedimento penale: tra riforme ordinarie e riforme costituzionali, Cedam, Padova, 2001, p. 129.

13 Cass. pen. 7 dicembre 2006, Curcio, in Cass. pen. 2008, pag. 685; Cass. 3 giugno 1994, Nappi, cit.

14 Cass. pen. 27 novembre 2014, in Ced Cass., n. 261865.


In relazione all’attività di ricerca e di esame dei residui dello sparo occorre operare una distinzione. Per quanto concerne l’applicazione del tampone a freddo, esso talvolta è stato considerato un atto d’indagine irripetibile, trattandosi di un rilievo non utilmente reiterabile successivamente, a causa della facile dispersione delle tracce dello sparo 15.

In tal caso peraltro, essendo in presenza di un atto di mero prelievo, di un semplice rilievo, antecedente e prodromico rispetto all’espletamento dell’accertamento tecnico, si ritiene che esso, pur essendo irripetibile, comunque non comporti la necessità dell’intervento della difesa nelle forme previste dall’art. 360 c.p.p. e, più in generale, non debba essere assoggettato all’osservanza delle varie disposizioni ivi contenute 16.

Da tale attività di prelievo vanno d’altro canto distinte le successive operazioni di esame mediante spettroscopio delle particelle fissate dal processo di cristallizzazione; esse sono infatti sempre suscettibili di ripetizione 17.

Parimenti non è stato considerato un accertamento tecnico, tale da richiedere l’osservanza delle garanzie difensive, l’attività di mera raccolta del materiale biologico rinvenuto sul luogo del delitto, necessaria per la successiva analisi del DNA e la sua comparazione 18.


15 BACCARi, La rilevazione dei residui dello sparo: dal “guanto di paraffina” allo stub, in CONTI, Scienza e processo penale. Nuove frontiere e vecchi pregiudizi, 2011, Giuffrè, Milano, p. 313.

16 Cass. pen. 28 febbraio 2006, p.m. in c. Ditto ed altri, in Arch. n. proc. pen. 2007, p. 395; Cass. pen. 30 novembre 2005, Fummo ed altri, ivi, 2007, p. 247; Cass. pen. 24 gennaio 2003, Bocchetti, in Dir. e giust. 2003, f. 14, p. 112.

17 Cass. pen. 28 febbraio 2006, in Arch. n. proc. pen. 2007, n. 3, p. 395.

18 Cass. pen. 10 gennaio 2012, in Ced Cass., n. 251775; Cass. pen. 13 novembre 2007, Pannone, inArch.. n. proc. pen. 2009, pag. 119; Cass. 31 gennaio 2007, Piras, in Cass. pen. 2008, p. 2972

 

3.L’IRRIPETIBILITÀ     DELL’ACCERTAMENTO TECNICO

 

Come noto, il legislatore ha preferito non fornire una definizione generale del concetto di irripetibilità, avendo il legislatore voluto evitare ogni espressa indicazione al riguardo, preferendo riservare la soluzione del problema alla «valutazione  in  concreto» ed al «divenire della esperienza teorica e pratica»19, e dunque all’elaborazione giurisprudenziale.

La problematica in oggetto risulta oltretutto complicata  dall’«ambiguo tenore» dell’intero disposto dell’art. 360 c.p.p. 20, e dall’impossibilità di operare una totale sovrapposizione, in chiave di coincidenza, tra il concetto di irripetibilità, o non reiterabilità, e quello di non rinviabilità, o indifferibilità, non sussistendo in realtà tra essi una corrispondenza biunivoca 21, e dovendosi anzi ravvisare un significativo margine di scarto tra i rispettivi ambiti 22. Oltretutto sussistono delle ipotesi, tra cui quella espressamente delineata dall’art. 117 disp. att. c.p.p., ove l’accertamento, pur astrattamente rinviabile, qualora effettuato determina una   modificazione radicale  e definitiva della realtà fenomenica, ed è pertanto da considerare come non rinnovabile.

19 Relazione prog. prel. c.p.p., in G.U. 24 ottobre 1988 n. 250, Suppl. ord. n. 2, p. 91.

20 CESARI, L’irripetibilità sopravvenuta degli atti di indagine, cit., p. 38.

21 ICHINO, Gli atti irripetibili e la loro utilizzabi- lità dibattimentale, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di Ubertis, Giuffrè, 1992, p. 113; MACCHIA, L’incidente probatorio, in Contributi allo studio del nuovo codice di procedura penale, a cura di Canzio-Ferranti- Pascolini, Giuffrè, 1989, p. 29.

22 CESARI, L’irripetibilità sopravvenuta degli atti di indagine, cit., p. 36.

È stato talora sostenuto che la situazione delineata dall’art. 360 c.p.p. configura in pratica un’irripetibilità “artificiale”, ex lege, assimilata alle ipotesi di cui all’art. 431, comma 1, lett. c), c.p.p. ai soli fini dell’inserimento delle relative risultanze nel fascicolo del dibattimento, ex art. 431, comma 1, lett. c), c.p.p., e della loro successiva utilizzabilità in giudizio, mediante lettura.

Generalmente gli accertamenti tecnici potrebbero infatti essere ripetuti, dal punto di vista naturalistico; essi vanno però espletati con urgenza, e risultano dunque indifferibili, in quanto riguardano degli elementi soggetti a modificazione, e ciò rende l’accertamento non procrastinabile alla fase del dibattimento 23 .

Trattasi di accertamenti che si rivelerebbero conseguentemente inutili in caso di differimento 24.

Si è dunque in presenza di atti sostanzialmente non rinviabili 25, in quanto essi richiedono la necessaria anticipazione dell’assunzione di una prova che non sarebbe più acquisibile in maniera proficua nella successiva fase dibattimentale.

Tali atti vengono purtuttavia definiti dal legislatore come irripetibili per eliminare ogni equivoco in ordine alla loro inseribilità nel fascicolo dibattimentale.

Appare significativo, tra i tanti, l’esempio degli accertamenti chimici sulla nocività di alimenti deteriorabili; trattasi infatti di accertamenti dei quali si presume la non rinnovabilità, ritenendosi che l’atto sia inutile in caso di differimento


23 CESARI, L’irripetibilità sopravvenuta degli atti di indagine, cit., p. 104, evidenzia come ai sensi dell’art. 360 c.p.p. il legislatore attribuisca la qualificazione di irripetibilità «ad una tipica situazione di non rinviabilità».

24 D’ANDRIA, Un tentativo di definizione degli atti non ripetibili, in Cass. pen., 1992, p. 1350; D’AMBROSIO, sub artt. 359 e 360, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, vol. IV, Utet, 1990, p. 205; FERRANTE, In margine ai rapporti tra l’art. 360 e l’art. 392 comma 1 lett. f c.p.p., in Giur. merito, 1995, II, col. 976 ss.

Si sarebbe dunque in presenza di atti sostanzialmente non rinviabili, in quanto essi richiedono la necessaria anticipazione dell’assunzione della prova, che non risulterebbe più utilmente acquisibile nella successiva fase dibattimentale.

Per ravvisare la sussistenza dell’irripetibilità occorre dunque, ai fini in esame, muoversi in un’ottica del tutto peculiare, volta ad accertare, alla luce di una considerazione realistica e pragmatica, se una determinata analisi possa o meno essere rinnovata con uguali prospettive di risultati positivi.

È stato escluso che nell’art. 360 venga in considerazione il concetto di atto intrinsecamente irripetibile, da intendersi come l’atto il cui compimento determina necessariamente la modificazione della persona, della cosa o del luogo che ne costituisce l’oggetto, osservandosi che nell’art. 360 la nozione di irripetibilità non attiene alle caratteristiche dell’atto, bensì alle caratteristiche di ciò che ne costituisce l’oggetto; si è dunque in presenza di una irripetibilità estrinseca, provocata da fattori che, incidendo in maniera inevitabile sull’oggetto di indagine, ne modificano irrimediabilmente le caratteristiche originarie.

Onde delineare la sussistenza dei caratteri dell’irripetibilità, occorre dunque muoversi nell’ottica diretta a valutare se un determinato accertamento possa essere esperito successivamente con eguali prospettive di risultati positivi 26.

25 MONTAGNA, Accertamenti tecnici e prova del DNA, in AA.VV., Prova penale e metodo scientifico, Utet, 2009, p. 110.


Così, per quanto concerne le sostanze stupefacenti si discute in campo tossicologico se l’analisi di supposti reperti di eroina o cocaina vada effettuata mediante il ricorso all’accertamento tecnico irripetibile, ai sensi dell’art. 360 c.p.p., trattandosi di sostanze organiche soggette a rapida modificazione delle proprie peculiari caratteristiche, o se al contrario esse debbano essere escluse dall’ambito di quelle esposte a tale rischio di modificazione.

A favore della prima soluzione viene affermato che le sostanze in oggetto sono destinate ad un’inevitabile alterazione sia per effetto di fattori estrinseci, quali la possibilità di ossidazione, l’esposizione alla luce, il pericolo di umidità, che può rapidamente     trasformare   la diacetilmorfina (eroina) in monoacetilmorfina (MAM), sia, anche in condizioni di perfetta conservazione, a causa dello stesso decorrere del tempo 27. In senso contrario si è sostenuto, ad opera della giurisprudenza attualmente prevalente, che alcuni stupefacenti, quali l’eroina e la cocaina 28, ma anche la stessa marijuana e l’hashish, non sono in realtà assoggettabili ad una modificazione in tempi brevi, trattandosi di sostanze allo stato solido non facilmente alterabili, che anche con il trascorrere del tempo conservano immutate le loro intrinseche caratteristiche (sia pur con una progressiva riduzione del principio attivo), e per le quali sarebbe dunque sempre possibile la successiva sottoposizione a perizia tossicologica in dibattimento.


26 MANZIONE, L’attività del pubblico ministero, cit., p. 268.

27 BERTOL, Il concetto tossicologico e giuridico di accertamento tecnico non ripetibile in tema di stupefacenti nel campo dei reperti non biologici, in Cass. pen., 1991, p. 1676 ss. ed in particolare p. 1678.


Per quanto invece concerne l’attività di prelievo degli stubs, volta a controllare la sussistenza di eventuali elementi residui di polvere da sparo depositatisi, a causa dell’esplosione di un’arma da fuoco, sulla persona dell’indagato o su oggetti a questi appartenenti, secondo un orientamento minoritario essa dovrebbe essere considerata un accertamento strutturalmente ripetibile, non determinando la compromissione delle sostanze analizzate; essa dunque non imporrebbe l’avviso ai difensori in ordine alla sua effettuazione.

In senso contrario era stato peraltro affermato in passato, da quella che si configurava come soluzione esegetica prevalente, che tale modalità di analisi rientra fra gli accertamenti tecnici irripetibili, in considerazione della mobilità e labilità delle particelle che costituiscono i residui della polvere da sparo e degli effetti del decorso del tempo sui tessuti che possono costituire oggetto dell’analisi 29. L’intera problematica è stata tuttavia affrontata e risolta successivamente sotto una diversa angolazione da altre decisioni di legittimità, secondo cui il prelievo di eventuali residui, atti a dimostrare l’avvenuta utilizzazione di un’arma da fuoco, pur essendo caratterizzato dall’irripetibilità, non giustificherebbe il ricorso al meccanismo delineato dall’art. 360 c.p.p., riservato ai  soli

«accertamenti»   tecnici,   rispetto   ai   quali i rilievi si pongono in posizione meramente prodromica.

L’accertamento volto a verificare l’esito dei rilievi non può essere definito irripetibile, stante la persistente assoggettabilità dei dati ottenuti ad una nuova valutazione.

 

28 V. per tutte Cass. pen. sez. IV, 10 giugno 2004, n. 34425, in Guida dir., 2004, n. 43, p. 65.

29 Cass. pen., 6-10-98, Andolfi, in Cass. pen. 99, 3189; Cass. pen. 4-2-97, Ambra ed altro, in Riv. pen. 97, p. 766.



Viene infatti sottolineata la differenza intercorrente tra i “rilievi” (nel cui ambito rientra il c.d. “tampone a freddo”) consistenti nella raccolta o constatazione di dati materiali pertinenti al reato, e lo studio e l’elaborazione critica di tali dati, su base tecnico-scientifica, costituente l’accertamento vero e proprio, suscettibile di ripetizione, basato sull’esame spettroscopico delle particelle estratte e fissate dal processo di metallizzazione; si ritengono conseguentemente ricompresi nella definizione di accertamento i soli sviluppi degli stubs, con le relative analisi tecniche, e non i meri rilievi 30.

Si è osservato, a sostegno di detta impostazione, che i rilievi, sebbene prodromici all’effettuazione di successivi accertamenti tecnici, non possono essere ritenuti assimilabili a questi ultimi, ai quali esclusivamente farebbe riferimento l’art. 360 c.p.p.

Viene ribadito che l’utilizzo, da parte del legislatore, del termine di “accertamenti”, accanto a quello di “rilievi”, evidenzia come essi facciano riferimento a situazioni non sovrapponibili, giacché, se così non fosse, non sarebbe giustificabile questa duplice terminologia 31. Se ne deduce che solo l’irripetibilità dell’accertamento, e non anche quella dei rilievi, impone l’osservanza del disposto dell’art. 360 c.p.p., aggiungendosi che una diversa tesi condurrebbe a conseguenze paradossali, in quanto mentre la polizia giudiziaria, operando d’iniziativa ai sensi dell’art. 354 c.p.p., può validamente effettuare dei rilievi di carattere irripetibile senza dare alcun avviso ai difensori, limitandosi esclusivamente, qualora l’indagato sia presente, all’avvertimento di cui all’art. 114 disp. att. c.p.p., il pubblico ministero, laddove volesse effettuare, direttamente o per delega, le stesse operazioni, dovrebbe invece osservare le formalità previste dall’art. 360 c.p.p. Detta impostazione è stata estesa ad ambiti ulteriori, che esulano dalla tematica del prelievo di tracce di polvere da sparo.


30 Cass. pen., 14 ottobre 2008, Nirta, in Cass. pen. 2010, p. 272; Cass. pen. 14 marzo 2008, Innocenti ed altri, in Riv. pen. 2009, p. 208; Cass. pen. 28 febbraio 2006, Ditto ed altri, in Ced Cass., n. 234266; Cass. pen. 30 novembre 2005, Fummo ed altri, in Ced Cass., n. 233354; Cass. 9 maggio 2002, Maisto, in Cass. pen. 2003, p. 3100, con nota di GRILLI.

31 VENTURA, Le nuove prove scientifiche nella revisione del processo penale, Cacucci Editore, 2010, p. 179.


Così si è giunti ad analoghe conclusioni per quanto concerne i “rilievi” disposti su un numero di telaio 32, ed i prelievi dei campioni biologici 33.

Anche in ordine alle attività di rilevamento delle impronte sugli oggetti rinvenuti presso il luogo del delitto si è sostenuto che le relative operazioni dattiloscopiche si traducono in operazioni meramente materiali e non rientrano pertanto nel novero degli accertamenti tecnici irripetibili.

Anche in tal caso si sottolinea che occorre avere ben presente la differenza intercorrente tra le attività di semplice constatazione e raccolta dei dati materiali concernenti il reato, riconducibili alla categoria dei “rilievi”, e quelle coinvolgenti invece lo studio, l’analisi, mediante procedure tecnico-scientifiche, e l’elaborazione critica dei dati così raccolti 34.

Analogamente si sostiene che l’attività di comparazione delle impronte digitali con quelle     già     repertoriate     negli  schedari configura un mero accertamento di dati obiettivi e non richiede pertanto l’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 360 c.p.p. 35. Va comunque ricordato che in precedenza, come         già         ricordato,                   pur         partendo     dalla premessa volta a differenziare i semplici rilievi dagli accertamenti una parte della giurisprudenza           era                             giunta all’opposta soluzione consistente nel giudicare irripetibili le analisi sui reperti di polvere da sparo, giacché per l’effettuazione dell’accertamento dovevano essere dissigillati i reperti e veniva manipolato il materiale da esaminare. Inoltre le tecniche utilizzate, anche se non distruttive, non     garantivano       il       mantenimento   delle condizioni originarie del materiale oggetto di indagine,         laddove                       al           contrario     un accertamento può essere definito ripetibile solo qualora sia rinnovabile senza provocare significative modificazioni di ciò che ne costituisce l’oggetto.

 

32 Cass. pen., 10 luglio 2009, Chiesa, in Cass. pen. 2011, p. 305.

33 Cass. pen., 13 novembre 2007, Pannone, in Ced Cass., n. 239101.

34 Cass. pen. 2 ottobre 2009, Xhepa, in Guida dir. 2010, f. 4, pag. 54; Cass. pen. 10 luglio 2009, Chiesa ed altri, in Ced Cass., n. 244950; C 2-12-04, De Vita, in Ced Cass., n. 231286; Cass. pen. 5 giugno 2003, Izzo, in Ced Cass., n. 225170; Cass. pen. 23 marzo 1995, Salvati, in Cass. pen. 1996, p. 854.



Occorre osservare al riguardo come il progresso scientifico abbia profondamente inciso su detta tematica. È stato infatti riconosciuto che il c.d. esame stub, rappresentato dall’analisi chimica dei campioni prelevati, volta ad accertare le tracce di un’esplosione di arma da fuoco, deve essere ritenuto suscettibile di ripetizione proprio alla luce delle sue connotazioni, in quanto esso consiste nell’esame spettroscopico elettronico dei campioni adesivi metallizzati, finalizzato ad accertare l’eventuale presenza, in combinazione ternaria, di particelle di piombo, bario ed antimonio, e non solo può essere effettuato in ogni momento, ma può essere ripetuto senza che possa derivarne alcun pregiudizio per l’attendibilità dei suoi esiti.

Venendo ora ad esaminare un’ulteriore, importante tipologia di accertamento, e cioèl ’accertamento autoptico, prevale al riguardo la considerazione, ispirata a criteri statisticamente confermabili, secondo cui un accertamento eseguito a distanza di breve tempo dalla morte permette di rilevare dei dati che il progredire dei processi tanatologici finirebbe molto spesso per cancellare o rendere di più difficile individuazione 36.

35 Cass. pen., 11 giugno 2909, Dedej, in Cass. pen. 2010, p. 1577.

36 Cass. pen., 21 gennaio 2004, Rota ed altri, in Ced Cass., n. 227351.


L’esame autoptico va dunque considerato un accertamento non ripetibile, a causa delle modificazioni biologiche ed anatomiche della

c.d. “sezione cadaverica”, osservandosi come la conservazione del cadavere in una cella frigorifera, pur ritardando le modificazioni putrefattive, non elimini l’evoluzione dell’autolisi e dell’emolisi.

Deve parimenti farsi ricorso al meccanismo dell’accertamento tecnico non ripetibile, e non a quello della semplice consulenza tecnica di cui all’art. 359 c.p.p., nell’ipotesi di un’analisi medica ginecologica, qualora il decorso del tempo possa compromettere l’individuazione delle conseguenze psicofisiche di tipo traumatico, dovute ad un episodio di abuso sessuale, riscontrabili sulla vittima 37.

37 Trib. Milano 22 gennaio 1996, Grignaschi, in Arch.n. proc. pen. 1996, p. 269


4.     GLI ACCERTAMENTI TECNICI MODIFICATIVI

 

Nelle ipotesi delineate dall’art. 117 disp. att. c.p.p. la sostanza che deve essere analizzata può non essere assoggettabile al rischio di una probabile modificazione dovuta al semplice decorso di un certo periodo temporale.

Non si è dunque in presenza di una condizione caratterizzata da un’intrinseca non rinviabilità da un’indifferibilità legata al tradizionale parametro dell’irreparabile trasformazione ed alterazione del materiale sottoponibile ad accertamento, a causa del trascorrere del tempo o  in  conseguenza  di  altri  fattori  atti  a compromettere la futura genuinità dell’analisi. Una tale situazione parrebbe dunque non rientrare nei parametri fissati per l’accertamento tecnico non ripetibile  dall’art. 360 c.p.p., ove l’irripetibilità costituisce un presupposto dell’atto di accertamento tecnico, laddove con riferimento all’art. 117 disp. att. c.p.p. essa consegue invece al compimento dell’atto.

In questo secondo caso infatti (si pensi all’analisi chimica che comporterebbe la distruzione del reperto) è l’accertamento stesso - la cui immediata effettuazione risulta imposta dalle finalità investigative, stante l’esigenza di proseguire le indagini in maniera mirata - a provocare detta modificazione.

È stata ravvisata al riguardo una irripetibilità determinata “artificialmente”, in presenza di un’ipotesi di “non rinviabilità funzionale”.

Il legislatore ha così dovuto espressamente estendere anche a detto contesto l’applicabilità dell’art. 360 c.p.p., mediante una norma attuativa in mancanza della quale avrebbero potuto sussistere dei fondati dubbi circa l’operatività del disposto concernente gli accertamenti su persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione e non si sarebbe forse potuto fare ricorso né all’accertamento tecnico non ripetibile né all’incidente probatorio, non essendo ravvisabile una situazione soggetta, in quanto tale, a modificazione, stante l’assenza di un’ipotesi interamente sovrapponibile a quella caratterizzante l’art. 360 c.p.p.; al contrario, in tal caso è l’accertamento, o meglio le modalità della sua effettuazione, a determinare l’irripetibilità, provocando la distruzione del reperto originario.


Si è osservato come si sia di fronte ad una categoria di atti di per sé rinviabili ma caratterizzati da una irripetibilità indotta, in quanto l’accertamento diventa insuscettibile di ripetizione, e dunque non rinnovabile, a causa della mutazione non reversibile del suo oggetto, dovuta alla natura “invasiva” della tecnica utilizzata, tale da determinare un’alterazione, irreparabile e facilmente presagibile, dell’oggetto da esaminare.

L’atto diventa non ripetibile “per consunzione”   in conseguenza dell’accertamento, avente effetti modificativi: si è parlato di non ripetibilità, o meglio di non rinnovabilità dell’atto per cause intrinseche, distinguendosi così tale concetto da quello relativo alla “non rinviabilità” dell’atto.

Un caso paradigmatico in tal senso è rappresentato dall’accertamento del numero di matricola abraso di un’arma, necessario al pubblico ministero per individuarne la provenienza delittuosa, e che, almeno in passato, risultava non ripetibile a causa dell’azione modificatrice provocata dai reagenti chimici utilizzati per tale operazione.

Per quanto concerne le autopsie  avevamo già ricordato,  sotto   un   differente  angolo di visuale, l’indifferibilità dell’accertamento, evidenziando come un accertamento eseguito ad una breve distanza di tempo dalla morte permetta di rilevare dei dati che il progredire dei progressi tanatologici finirebbe per cancellare o rendere di più difficile individuazione, a causa delle variazioni biologiche ed anatomiche della c.d. “sezione cadaverica”.

In questa sede aggiungiamo ora che a sua volta l’attività consistente nel sezionare un cadavere, gli organi, i tessuti ed i visceri comporta una modificazione così radicale della situazione anatomica e biologica del corpo e dei rapporti tra i suoi vari componenti interni che una successiva indagine autoptica non può più essere utilmente compiuta; conseguentemente le eviscerazioni e le incisioni sul cadavere concretano al contempo l’ipotesi di cui all’art. 117 disp. att. c.p.p.

Va del resto ricordato come, ai sensi dell’art. 116, primo comma, disp. att. c.p.p., laddove per la morte di una persona sorga sospetto di reato, il procuratore della Repubblica, qualora lo ravvisi necessario, può scegliere se ordinare l’autopsia secondo le modalità previste dall’art. 360 c.p.p. o fare invece richiesta di incidente probatorio.

L’irripetibilità dell’autopsia, ravvisata ope legis dal predetto art. 116 disp. att. c.p.p., è dovuta verosimilmente alla volontà del legislatore di tener conto, oltreché della naturale alterazione del cadavere, anche della possibilità di modificazioni provocate dallo stesso accertamento autoptico. D’altro canto l’indifferibilità dell’accertamento per le autopsie trova un’ulteriore giustificazione nell’esigenza di evitare un’inutile prosecuzione delle indagini laddove l’individuazione delle cause del decesso permetta di dimostrare l’insussistenza di qualsivoglia ipotesi di reato.

 

 

5.   GLI ONERI DELLA DIFESA IN CASO DI RICHIESTA DI INCIDENTE PROBATORIO ED ALCUNI VISTOSI ERRORI GIURISPRUDENZIALI NELLA PRASSI APPLICATIVA

 

In base al quarto comma dell’art. 360 c.p.p. qualora, prima del conferimento dell’incarico, il difensore, per conto della persona sottoposta alle indagini, formuli riserva di promuovere incidente probatorio «il pubblico ministero dispone che non si proceda agli accertamenti salvo che questi, se differiti, non possano più essere utilmente compiuti».

Avviene talora che il pubblico ministero, sostenendo che il differimento non permetterebbe più l’utile compimento degli accertamenti tecnici, si opponga alla richiesta insistendo per l’immediata effettuazione degli accertamenti tecnici.

Trattasi peraltro di una mossa che, laddove non sorretta da adeguato fondamento, può rivelarsi estremamente “azzardata” e controproducente per le sorti dell’accusa, in quanto come ben noto, ai sensi del quinto comma del predetto art. 360 c.p.p., qualora il pubblico ministero, malgrado l’espressa riserva di incidente probatorio formulata dalla difesa e pur non sussistendo le condizioni delineate dall’ultima parte del quarto comma, abbia ugualmentne disposto di procedere agli accertamenti tecnici «i relativi risultati non possono esseere utilizzati nel dibattimento».

Per quanto concerne gli oneri della difesa susseguenti alla formulazione della “riserva” il testo originario dell’art. 360 c.p.p. non prevedeva alcun termine decadenziale per la successiva proposizione della richiesta di incidente probatorio e ciò indubbiamente, come era stato riconosciuto da numerosi Autori, tra cui lo scrivente, poteva indurre a facili aggiramenti della preevisione legale, trasformando la formulazione della riserva in un mero strumento defatigatorio tendente unicamente al rallentamento delle operazioni accertative.

La lacuna è stata colmata in virtù del comma 4 bis dell’art. 360 c.p.p., inserito dall’art. 1, comma 28, della l. 23 giugno 2017, n. 103, per effetto  del quale la riserva «perde efficacia e non può essere ulteriormente formulata se la richiesta di incidente probatorio non è proposta entro il termine di dieci giorni dalla formulazione della richiesta stessa».

In relazione alla richiesta di incidente probatorio formulata dalle difese, si assiste peraltro, assai spesso, ad applicazione giurisprudenziali distoniche rispetto al dettato degli artt. 393 ss. c.p.p.

Particolarmente problematica appare la prassi applicativa formatasi in relazione al disposto dell’art. 395 c.p.p. (Presentazione e notificazione della richiesta), laddove il dettato normativo prevede che la richiesta di incidente probatorio sia «notificata a cura di chi l’ha proposta, secondo i casi, al pubblico ministero e alle persone indicate nell’art. 393, comma 1 lett. b)».

Appare evidente che, se l’incidente probatorio viene richiesto dal p.m.,  la relativa richiesta debba essere notificata, a cura dello stesso p.m., all’indagato o ai coindagati, e che invece, laddove esso sia richiesto dall’indagato, la relativa richiesta debba essere notificata, a cura del suo difensore, al pubblico ministero.

Molti uffici giudiziari ritengono invece che, in caso di pluralità di indagati, laddove la richiesta di incidente probatorio venga formulata da uno di essi il suo difensore risulti onerato di notificare la richiesta non solo al pubblico difensore ma anche a tutti gli altri coindagati.

Se sul punto possono ritenere giustificabili dei dubbi interpretativ, assolutamente pacifica appare l’erroneità di un’ulteriore impostazione giurisprudenziale, concernente parimenti il disposto dell’art. 395 c.p.p., laddove esso prevede, all’ultima parte, che la prova della notificazione debba essere depositata in cancelleria.

Presso numerosi uffici giudiziari laddove non pervenga entro termini brevissimi la prova, da parte della difesa, dell’avvenuta notifica della richiesta al pubblico ministero la richiesta stessa viene dichiarata inammissibile.

Detta impostazione appare chiaramente erronea.

Il terzo comma dell’art. 393 c.p.p., con un’indicazione che deve ritenersi tassativa, ricollega l’inammissibilità alla sola inosservanza delle disposizioni di cui ai precedenti commi 1 e 2, che non riguardano in alcun modo la predetta notifica.

Pertanto, la comprova dell’avvenuta notifica vale semplicemente a fissare il dies a quo da cui decorrono i due giorni entro i quali, ai sensi dell’art. 398 c.p.p., il giuidce è tenuto a pronunciare ordinanza con cui accoglie, dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di incidente probatorio.

             

 

 

 

Sull’utilizzo in sede processuale di fotografie o video volti a ritrarre soggetti all’interno di abitazioni private o di studi professionali

 

Di Pierpaolo Rivello socio ANF Torino Piemonte


 

Appare interessante soffermare brevemente l’attenzione sulla problematica concernente la legittimità della produzione in giudizio di foto o video volti, ad esempio,  a ritrarre un determinato soggetto  all’interno della propria abitazione.

In taluni casi dette fotografie potrebbero apparire rilevanti e significative (si pensi ad un procedimento per divorzio nel quale vengano esibite foto volte a mostrare un coniuge in atteggiamenti affettuosi con un partner diverso dalla propria moglie o dal proprio marito).

Occorre peraltro preliminarmente verificare che l’eventuale produzione in giudizio di questo  materiale non esponga al rischio di veder incriminato l’autore di dette fotografie per il reato di cui all’art. 615 bis c.p. (Interferenze illecite nella vita privata).

In base al primo comma di detto articolo «Chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni».

Il successivo secondo comma prevede la stessa pena, salvo che il fatto costituisca un più grave reato, nei confronti di «chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo».

Cerchiamo dunque di approfondire la tematica in oggetto.

Bisogna al riguardo tracciare una netta linea di discrimine tra ciò che deve essere considerato illecito e ciò che invece appare estraneo alla sfera penale.

La ripresa visiva o sonora può infatti considerarsi lesiva della riservatezza ed atta conseguentemente ad integrare il reato in oggetto solo qualora vengano fotografati, videoregistrati od audioregistrati dei comportamenti sottratti alla normale osservazione dall’esterno, giacchè la tutela del domicilio sotto questo aspetto è limitata a ciò che si compie al suo interno in condizioni e con modalità tali da rendere detta condotta tendenzialmente non percepibile dagli estranei.

Conseguentemente il reato di interferenza illecita nella vita provata non appare ravvisabile qualora una determinata azione, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, possa essere liberamente osservata ad occhio nudo, senza dover ricorrere a particolari accorgimenti, come avviene qualora un soggetto  venga fotografato mentre si trova sul balcone o sul terrazzo della propria abitazione [1].



[1] Cass. pen., sez. VI, 30 ottobre 2008.n. 40577, Apparuti, in Ced Cass., n. 241213; Cass. pen., ud. 29 ottobre 2008, dep. 1° dicembre 2008, n. 44701, Caruso, ivi, n. 242588.